L’antropologia umanitaria: ripensare il ruolo dell’apolitico e del privato nello spazio umanitario

Questo articolo riesamina brevemente l’attuale critica all’umanitarismo occupandosi di approcci alternativi allo spazio umanitario pubblico, alla figura dell’antropologo-umanitario, alla politica dell’umanitarismo e all’antropologia della sofferenza. Il caso studio qui riportato riguarda l’accoglienza terapeutica dei bambini di Chernobyl presso famiglie ospitanti italiane(1).

Dallo spazio umanitario pubblico a quello privato

Uno spazio umanitario è generalmente inteso come un campo per rifugiati o un centro di accoglienza. Gli abitanti di questo spazio sono sia rifugiati o richiedenti asilo (soggetti bisognosi di aiuto) sia organizzazioni internazionali, nazionali o locali (soggetti soccorritori). Questa visione è stata criticata in quanto genera involontarie conseguenze negative di un umanitarismo che produce la miseria di vite prive di senso (Ticktin, 2014: 278). Può una famiglia ospitante, ovvero uno spazio privato piuttosto che pubblico, diventare una soluzione migliore per i problemi umanitari?

Una famiglia ospitante  è costituita da una famiglia (soggetti soccorritori) e dai suoi ospiti (soggetti bisognosi). Gli ospiti possono soggiornare per un periodo di tempo limitato, nell’arco di più anni. Mentre i rifugiati nei campi profughi sono isolati dalla popolazione locale, i bambini invitati nelle famiglie sono accolti dalla società. In seguito al disastro nucleare di Chernobyl, i bambini provenienti dalle aree piu’ afflitte hanno potuto soggiornare in Italia ogni anno per uno/due mesi fino all’età di 18 anni. Le famiglie ospitanti hanno fornito ai bambini cibi non radioattivi, vestiti, materiale scolastico, medicine e denaro contante.

L’accoglienza all’interno di una società influisce sulle conseguenze dell’umanitarismo. Per alcuni bambini di Chernobyl, l’esperienza in una famiglia ospitante ha significato una successiva migrazione in Italia per motivi educativi, lavorativi o matrimoniali. Alcuni ragazzi hanno scelto professioni riconducibili all’esperienza italiana (ad es. interpreti), altri hanno deciso di ricevere il battesimo cattolico, mentre altri continuano semplicemente a tornare in visita in Italia anche in età adulta. Una famiglia ospitante rappresenta uno spazio che parte con un obiettivo a breve termine di sollievo dal disagio, ma che può successivamente trasformarsi in un progetto a lungo termine di supporto alle relazioni umane e di impatto sulle scelte di vita.

Oltre l’antropologo-umanitario

Ticktin chiede: che posizione morale si occupa allorche’ si intenda criticare un movimento moralmente ispirato come l’umanitarismo? (2014: 277). Ticktin sostiene la posizione dell’antropologo-pragmatico che svela le conseguenze non intenzionali o impreviste degli interventi umanitari (2014: 278). Tuttavia questa visione non salva gli antropologi dal privilegio di essere accademici di istituti occidentali, che viaggiano in luoghi meno privilegiati, studiando persone meno privilegiate.

Esistono ancora nell’antropologia delle categorie che sono sottorappresentate, come ad esempio quelle dell’antropologo sopravvissuto, dell’antropologo auto-etnografo o dell’antropologo-subalterno. Nel mio lavoro, l’essere un’antropologa sopravvissuta al disastro nucleare di Chernobyl emerge dalla mia personale esperienza di soggiorno in Italia durante l’infanzia. Tuttavia, non tutti i sopravvissuti a disastri o guerre possono diventare antropologi. Come possiamo sostenere la possibilità di diventare antropologi per le persone che hanno vissuto una catastrofe e, in particolare, per le persone che hanno un passato meno privilegiato?

L’apoliticismo nell’umanitarismo

Il rifiuto verso l’uso della politica, all’interno dell’umanitarismo, è dettato dai principi di neutralità e imparzialità. L’umanitarismo viene tuttavia criticato per i suoi legami con il capitalismo, il militarismo e per i suoi interessi personalistici di governance neoliberale.

Recenti ricerche hanno evidenziato come sia possibile migliorare l’umanitarismo piuttosto che rinnegarlo. La questione non riguarda la struttura che l’umanitarismo può riprodurre (ad esempio il capitalismo, il militarismo), ma come l’umanitarismo può mettere in discussione questa struttura.

L’aiuto fornito ai bambini bielorussi di Chernobyl ospitati in Italia era un’iniziativa apolitica. Ė stato di fondamentale importanza portare avanti questo progetto, nonostante i disordini politici legati alla transizione post-comunista, in cui sia la Russia sia le potenze occidentali hanno cercato di influenzare le scelte della Bielorussia. Il paese ha scelto di mantenere stretti legami con la Russia e ciò ha provocato un conflitto geopolitico con l’Occidente a partire dalla metà degli anni ’90.

Mentre la cooperazione tra stati a livello europeo era bloccata, i legami personali tra Bielorussia e Italia crescevano. Per anni, la distanza dalla politica, ha permesso alle organizzazioni benefiche italiane (e ad altre occidentali) di promuovere interazioni interpersonali.

La lingua italiana è diventata la terza lingua straniera più studiata in Bielorussia, dopo inglese e tedesco. Nelle aree contaminate i giovani parlano meglio l’italiano che l’inglese. Ciò ha contribuito a sviluppare la cooperazione tra l’Italia e la Bielorussia a livello statale, in particolare in campo economico e culturale. Rimane la questione di come queste iniziative possano aiutare a risolvere il conflitto geopolitico tra la Bielorussia e l’UE e se le relazioni stabilite in campo economico e culturale possano trasformare le relazioni in ambito politico (cioè la cittadinanza partecipativa).

Verso l’antropologia del bene?

L’antropologia umanitaria è stata letta attraverso le lenti dell’antropologia della sofferenza (Robbins, 2013). Ticktin (2014) sostiene che l’umanitarismo può essere indirizzato verso l’antropologia del bene e diventare un nuovo tipo di antropologia morale. Mentre Ticktin si concentra principalmente sulla moralità e il benessere, Robbins (2013) considera anche l’empatia, la cura, la speranza e il cambiamento. In che modo i temi sollevati in questo blog post –  famiglia ospitante, categorie di antropologi sottorappresentate e apoliticismo – possono essere compresi attraverso l’antropologia del bene?

L’empatia e la cura sono legate a come le persone agiscono per creare del bene nelle relazioni sociali (Robbins, 2013: 457). Una famiglia ospitante è uno spazio umanitario privato in cui le relazioni sociali vengono create, mantenute e trasformate. Teorie dell’antropologia dell’umanitarismo quali il biopotere (Foucault, 1978) e la “nuda vita” (Agamben, 1998) risultano poco rilevanti per comprendere le dinamiche di una famiglia ospitante. Si rendono necessarie altre teorie per studiare questo fenomeno.

L’antropologia del bene dà attenzione anche a tempo, cambiamento e speranza (Robbins, 2013: 458). Collocare l’antropologia dell’umanitarismo nell’antropologia del bene significa accettare che le conseguenze inattese dell’umanitarismo non siano sempre negative. Il compito dell’antropologo diventa quindi il ricercare la costituzione del bene e del male nei progetti umanitari, piuttosto che la contraddizione tra loro. Riconoscere la vulnerabilità umana e l’interdipendenza di tutti gli attori dell’umanitarismo può, sul lungo periodo, trasformare le politiche, la geopolitica e la cittadinanza partecipativa.

Note

(1) Il disastro nucleare di Chernobyl si è verificato nel 1986 in Unione Sovietica. Il paese più colpito fu la Bielorussia (con il 35% della sua popolazione). In Bielorussia furono 500.000 i bambini sopravvissuti al disastro nucleare di Chernobyl. L’Italia ha ospitato oltre 460.000 bambini bielorussi tra il 1990 e il 2015.

Bibliografia

Agamben, G. (1998) Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life. Stanford, CA: Stanford University Press.

Foucault, M. (1978) The History of Sexuality: An Introduction. New York: Vintage.

Robbins, J. (2013) ‘Beyond the Suffering Subject: Toward an Anthropology of the Good’, Journal of Royal Anthropological Institute 19: 447–462.

Ticktin, M. (2014) ‘Transnational Humanitarianism’, Annual Review of Anthropology 43: 273–289.

(Traduzione di Donata Balzarotti)

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