Il potenziale politico della responsabilità nell’umanitarismo interno

Operazione Confini Sovrani

Sebbene fosse una fredda notte invernale, la coda arrivava fin oltre l’angolo. Prendendo posto all’interno del magazzino di Melbourne dove si svolgeva la serata informativa per gli aspiranti volontari, il brusio si placò nell’istante in cui il direttore allargò le mani proclamando: “I nostri volontari riempiono questo edificio con uno tsunami di compassione che è così fragoroso da non poter immaginare ci sia un altro mondo là fuori. Ci sono ancora persone che credono nell’idea che si possa rendere grande l’Australia e le deluderemmo se ci arrendessimo di fronte ai nostri leader politici. Non abbiamo bisogno di codardi con cuori vuoti e idee bizzarre. Possiamo essere la ‘bussola morale’ della società che desideriamo.”

Questo coinvolgente discorso, accolto dagli applausi del pubblico, rispondeva a un’ondata di ostilità generale mobilitata nei confronti delle persone in cerca di asilo che tentano di raggiungere l’Australia via mare. Sin dal 2013, le persone in cerca di asilo hanno subito le conseguenze dell’Operazione Confini Sovrani, una strategia di deterrenza del governo australiano accompagnata da una brutale campagna pubblicitaria che recita “In nessun modo farete dell’Australia la vostra casa.” Indirizzata ai paesi di origine dei richiedenti asilo, questa strategia ha ricevuto un sostegno bipartisan e della maggioranza degli elettori innescando azioni militari e punitive come respingimenti in mare da parte della Marina Australiana e la carcerazione dei richiedenti sulle isole di Nauru e Manus.

Le persone raccoltesi in quella fredda notte di Melbourne stavano cercando un modo per essere di aiuto, ma anche un modo per credere in un’alternativa politica. Esprimevano frustrazione e sgomento per il trauma inflitto dalla politica di deterrenza del governo australiano alle persone in cerca di asilo.

Molti volontari, nel corso degli anni, hanno fornito aiuto a quasi 30.000 persone con visti temporanei. Seppur non in carcere, queste persone in cerca di asilo possono aspettare anni prima che le loro richieste di asilo vengano valutate vivendo nel frattempo in condizioni precarie con diritti di lavoro e/o di studio non adeguati e un basso stipendio governativo, corrispondente all’89 per cento del più basso contributo assistenziale. I richiedenti asilo sono strutturalmente costretti a fare affidamento su reti personali informali ed enti di beneficenza. A differenza delle persone in detenzione o di quelle con status di rifugiato, i titolari di visti temporanei sono pressoché invisibili nel discorso pubblico. In termini politici sono considerati “non-persone”, “non meritevoli” di aiuti umanitari o di residenza permanente a causa del loro arrivo “non autorizzato” (McMillan 2017).

L’umanitarismo interno

Questo pezzo si concentra sugli operatori umanitari che operano in Australia fornendo aiuti e immaginando alternative all’Operazione Confini Sovrani. Il mio uso del concetto di “umanitarismo interno” è dato dalla fusione di (1) un “soggetto umanitario” caratterizzato da un “bisogno di aiutare” (Malkki 2015) o “dall’impulso di dare” (Bornstein 2012) a uno sconosciuto, lontano e sofferente, con (2) un “soggetto responsabilizzato” (Rose 1996) spinto dallo Stato a prendersi cura della propria comunità in quanto dovere e condizione di cittadinanza (Muehlebach 2012). L’umanitarismo interno combina un impulso umanitario universale con sentimenti di dovere e responsabilità legati alla cittadinanza creando un umanitarismo “fatto in casa”. É proprio la relazione tra l’operatore umanitario interno/locale e la nozione di responsabilità a essere al centro della mia analisi. La domanda è: l’operatore umanitario interno si sente responsabile o tenuto a rispondere (Hage ed Eckersley 2012) delle politiche punitive del proprio Stato che colpiscono un “Altro” che è anche il proprio vicino? Nel pormi tale quesito, mi unisco ad altri antropologi che hanno cercato di studiare le distinzioni tra “casa” e “altrove”, “cittadini” e “non cittadini” (Fassin 2012, Malkki 2015, Brković 2016, Cabot 2018).

Dal punto di vista analitico, considerare come la responsabilità umanitaria possa manifestarsi a livello nazionale è una questione non solo di scala o di livello, ma di quello che accade quando queste scale si intersecano e di come ciò possa produrre nuove e molteplici forme di azione sociale e morale. Ma il modo più importante in cui spero di contribuire a tali dibattiti è suggerire che l’umanitarismo interno rappresenti la possibilità di un’alternativa politica più accessibile e inclusiva.

Un registro politico di equità e giustizia

Prima delle elezioni australiane del 2016 è stata lanciata una campagna umanitaria che mirava a introdurre un nuovo linguaggio umanistico atto a modificare il discorso nazionalista nei confronti delle persone in cerca di asilo. Questa campagna si basava su una ricerca che trovava il linguaggio antagonistico e reattivo degli attivisti non efficace nel convincere “i persuadibili”, ossia gli elettori indecisi che comprendono il 60% della popolazione votante. In passato, in risposta a coloro che sostenevano che “è illegale chiedere asilo”, gli attivisti rispondevano semplicemente “non è illegale” rafforzando involontariamente la narrativa dominante. Successivamente la tendenza è stata quella di praticare una sorta di politica prefigurativa (Maeckelbergh 2011) usando parole che enfatizzavano l’azione piuttosto che la sofferenza: speranza, libertà e processo equo. L’obiettivo era tradurre questa narrativa in politiche di ridefinizione delle procedure di richiesta di asilo introducendo, per esempio, i visti permanenti, una revisione legale più equa e il ricongiungimento familiare.

Il passaggio dai valori alla politica richiedeva un attento equilibrio, conferendo ai volontari una responsabilità maggiore. I volontari provavano un senso di responsabilità collettiva nel correggere i torti commessi dallo Stato e, contemporaneamente, vedevano se stessi e le persone in cerca di asilo come detentori di diritti politici e civili. Non avrebbero più aspettato passivamente che uno Stato moralmente corrotto potesse cambiare. Avrebbero invece dimostrato quale dovesse essere la nuova condotta morale. Piuttosto di uno Stato che responsabilizzava i cittadini, erano i cittadini che cercavano di responsabilizzare uno Stato immorale.

Il registro culturale di vicinato

In una bancarella di un festival di strada locale a Melbourne, i prodotti da forno mezzi sciolti si stagliavano sotto a un festone fatto a mano. Alcune donne sedute ricevevano offerte in cambio di fette di torta e vendevano strofinacci. Sopra di loro, un angelo spiegava le sue ali decorate mostrando la scritta “Benvenuti”.

Sempre a Melbourne, un gruppo di madri svolgeva del volontariato promuovendo il “sostegno tra vicini di casa”. Fornendo aiuti materiali e cibo ai richiedenti asilo e raccogliendo fondi avevano attirato l’attenzione di tutto il vicinato grazie a sfrigolii di salsiccia, mercatini dell’usato nei garage, vendita di dolci e riffa. Il tutto era accompagnato da “arti domestiche” come cucito, cucina e giardinaggio. Un codice di buon vicinato è un modo per mobilitare il senso del dovere degli australiani nei confronti del prossimo in difficoltà attingendo a un quadro storico-culturale consolidato di cooperazione e mutuo soccorso che Oppenheimer (2008) ha connotato in modo distintivo come ” metodo australiano di fare volontariato.”

Trasformare i richiedenti asilo ha rimesso al centro il loro diritto di assistenza. Tuttavia, tale approccio pone alcune preoccupazioni, come per esempio il rischio di “addomesticamento” dell’ “Altro” sulla base di norme culturali vincolate allo Stato-nazione (Hage 1999). Ciò comporta, in ogni caso, il passaggio della “questione del richiedente asilo” a diversi piani o livelli: dall’internazionale al nazionale, dalla politica alla comunità, dall’estraneo al vicino, dalla paura alla solidarietà. Inoltre, favorisce sensibilmente una maggiore consapevolezza nell’opinione pubblica circa le condizioni di vita delle persone della porta accanto, non solo di coloro che vivono in zone di conflitto o in centri di detenzione.

Verso una “arte di governo” accessibile

I registri di responsabilità politica, etica e culturale si fondono in queste pratiche umanitarie interne. Il nuovo linguaggio umanistico nelle campagne delle ONG parla di equità e giustizia. Ciò non rimanda a un sentimento morale universale, ma si collega a specifiche rivendicazioni politiche. Allo stesso tempo, a livello locale si afferma un dovere morale culturalmente radicato nelle tradizioni australiane di cooperazione e mutuo aiuto.

James Ferguson (2009) evidenzia come la Sinistra globale non sia riuscita a promuovere una “arte di governo” di successo. Ciò ha particolare rilevanza in un momento in cui i movimenti populisti xenofobi stanno ottenendo sempre più consenso in molte parti del mondo. Pensando ai futuri passi delll’antropologia dell’umanitarismo, sembra opportuno andare oltre l’oscillante dibattito relativo alla depoliticizzazione o meno dell’umanitarismo. Quali sono le implicazioni politiche dell’operare su molteplici piani di responsabilità? Le responsabilità generate dall’umanitarismo interno possono avere un senso a cavallo dei tradizionali binari politici di sinistra/destra. Sebbene a un primo sguardo i miei esempi possano sembrare alquanto diversi, condividono una somiglianza nel cercare di rendere il loro “perché” accessibile a tutti i credo politici. A differenza di altre tecniche attiviste più radicali, equiparare la responsabilità del piano politico, etico e culturale potrebbe fornire la base per una politica progressista più inclusiva. Ciò potrebbe costituire un’attrattiva per persuadere gli elettori insicuri delle proprie opinioni e, in un clima di ostilità, incoraggiare atteggiamenti più umani verso gli “Altri”.

(Tradotto da Donata Balzarotti)

Ringraziamenti

Grazie di cuore a tutti coloro che hanno partecipato a questa ricerca durante il mio periodo di ricerca sul campo per il dottorato nel 2015-16 a Melbourne.

 

Bibliorafia

Bornstein, Erica. 2012. Disquieting gifts: Humanitarianism in New Delhi. Stanford: Stanford University Press.

Brković, Čarna. 2016. Scaling humanitarianism: Humanitarian actions in a Bosnian town. Ethnos 81(1): 99-124.

Cabot, Heath. 2018. The European refugee crisis and humanitarian citizenship in Greece. Ethnos: 1-25.

Fassin, Didier. 2012. Humanitarian reason: A moral history of the present. Berkeley: University of California Press.

Ferguson, James. 2009. The uses of neoliberalism. Antipode 41(1): 166-184.

Hage, Ghassan. 1999. White nation: Fantasies of white supremacy in a multicultural society. Sydney: Pluto Press.

Hage, Ghassan and Robin Eckersley. (Eds.). 2012. Responsibility. Melbourne: Melbourne University Press.

Larsen, Birgitte. 2011. Drawing back the curtains: The role of domestic space in the social inclusion and exclusion of refugees in rural Denmark. Social Analysis 55(2): 142-158.

Malkki, Liisa. 2015. The need to help: The domestic arts of international humanitarianism. Durham: Duke University Press.

Maeckelbergh, Marianne. 2011. Doing is believing: Prefiguration as strategic practice in the alterglobalization movement. Social Movement Studies 10(1): 1-20.

McMillan, Chris. 2017. Who gets a fair go? A Žižekian reading of representations of asylum seekers in Australia. Psychoanalysis, Culture & Society 22(1): 33-51.

Muehlebach, Andrea. 2012. The moral neoliberal: Welfare and citizenship in Italy. Chicago: University of Chicago Press.

Oppenheimer, Melanie. 2008. Volunteering: Why we can’t survive without it. Sydney: UNSW Press.

Rose, Nicholas. 1996. Governing ‘advanced’ liberal democracies. In A. Barry & T. Osborne (Eds.), Foucault and political reason: Liberalism, neoliberalism and  rationalities of government (pp. 37-64). London: University College London Press.

 

 

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