Negli ultimi quindici anni, le politiche del lavoro in Bosnia-Erzegovina hanno conosciuto un processo di umanitarizzazione. Con ciò mi riferisco al crescente utilizzo di sentimenti morali nelle rivendicazioni politiche dei lavoratori, in particolare l’uso delle emozioni che dirigono la nostra attenzione alla sofferenza degli altri e ci fanno desiderare di porvi rimedio (Fassin 2012: 1). Sebbene il sindacalismo socialista in Bosnia non fosse estraneo all’utilizzo di sentimenti morali per dare forza alle proprie rivendicazioni, il ricorso all’idea di sofferenza non faceva parte di tale politica. Un simile cambiamento, oggi, riflette la crescente precarizzazione dei lavoratori e la necessità di nuove tattiche per farvi fronte. Questo breve articolo, basato sulla mia ricerca tra i lavoratori disoccupati della città di Tuzla, nel nord della Bosnia, affronta la relazione che intercorre tra politica del lavoro, ragione umanitaria ed esposizione mediatica.
La maggior parte dei lavoratori che ho incontrato provengono da grandi aziende indebolite dai debiti, da una pessima gestione, dalla corruzione, dalla mancanza di investimenti e da altri effetti della privatizzazione voluta dallo stato. Sebbene Tuzla abbia una storia quasi centenaria di attivismo sindacale, le recenti lotte non riguardano le condizioni lavorative o una redistribuzione dei profitti. I lavoratori lottano per riavviare la produzione, per soddisfare gli obblighi di un contratto di stampo socialista e, quindi, per ripristinare un modello lavorativo basato su una crescita e una emancipazione umana intrinseca a quel contratto. In quanto disoccupati o in esubero, i lavoratori faticano a garantirsi un posto di lavoro e ciò ha dato origine a nuove e sperimentali strategie di rivendicazione. A volte i lavoratori sono apertamente conflittuali: bloccano le principali vie di trasporto o si scontrano con la polizia di fronte a edifici governativi. Altre volte si mostrano in disgrazia, sofferenti e persino sull’orlo del suicidio proclamando scioperi della fame o marciando in segno di protesta per giorni nel cuore dell’inverno. Quale che sia l’azione specifica, i lavoratori tentano sempre di sollecitare una copertura mediatica, apparentemente per provocare un’azione statale imbarazzando (o irritando) le autorità governative.
Nel corso della ricerca mi ha colpito il fatto che, di solito, le azioni dei lavoratori non provocano la reazione desiderata da parte del governo. Tuttavia, innescano attenzione e azione da parte di altri attori sociali, spesso in modi imprevedibili ma significativi. Prendiamo, ad esempio, una lettera pubblicata su un notiziario web locale. Tale lettera descrive dettagliatamente la sofferenza dei lavoratori le cui richieste, per gli stipendi non pagati e i contributi non versati, erano cadute nel nulla. Sebbene il mittente si aspettasse ben poco dalla lettera, questa aveva attirato l’attenzione di alcuni studenti che stavano occupando l’università locale e cercavano un modo per dare più visibilità al loro attivismo. In poco tempo, gli studenti sono riusciti a radunare altri amici e docenti universitari, acquistare cibo e incontrare i lavoratori nel presidio situato all’ingresso della fabbrica. Tale incontro ha a sua volta generato una serie di relazioni che, nel tempo, sono riuscite a rendere le disuguaglianze socio-economiche di Tuzla un tema costante nei notiziari locali e nazionali dando eco internazionale alla situazione di questi lavoratori e contribuendo a (ri)qualificarli come soggetti politici rilevanti.
In un altro caso, circa 200 disoccupati, per lo più di mezza età, hanno lasciato Tuzla dirigendosi a piedi verso il confine di stato. I leader del sindacato hanno descritto tale esodo come una reazione all’abbandono dei lavoratori da parte del governo cantonale.
Nel corso di quattro giorni, si è scatenato un dramma politico nell’etere, con notiziari in diretta che trasmettevano le dichiarazioni del governo e i successivi commenti dei leader sindacali raccolti a caldo per la strada. Questi collegamenti erano colmi di immagini di sofferenza e di spontanei atti di compassione. Attaverso tale strategia, i lavoratori si sono consapevolmente posti in una posizione di rischio e vulnerabilità che ha moltiplicato le azioni dei partecipanti nel dare e ricevere aiuto. Prendendosi pubblicamente cura dei propri concittadini, i volontari della Croce Rossa e i singoli funzionari municipali hanno evidenziato la legittimità della richiesta di poter “vivere del proprio lavoro” e l’illegittimità del governo cantonale nel rifiutarsi di garantire la possibilità di farlo.
In un’altra occasione, il proprietario di un notiziario web locale ha recuperato un filmato che mostra la leader dello sciopero di una fabbrica confrontarsi con un avvocato in diritto fallimentare nominato dal governo. Nel video la lavoratrice chiede all’avvocato di non svendere le attività della fabbrica, ma di impegnarsi a riavviare la produzione. Ispirato dalla tenacia della lavoratrice, il proprietario del notiziario web ha deciso di rintracciarla per offrirle sostegno. Ha dunque attivato le proprie reti sociali e mediatiche per dar vita a una campagna nazionale che non costasse nulla ai lavoratori e che creasse una sufficiente domanda dei prodotti della fabbrica che, in tal modo, non è fallita.
Vorrei evidenziare due aspetti che emergono da queste azioni dei lavoratori e dai loro effetti inaspettati. Il primo è che abbiamo bisogno di riconfigurare il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa per meglio comprendere le possibilità e i limiti della politica umanitaria dei lavoratori. Boltanski (1999) e Malkki (1996) hanno indagato il ruolo che le immagini di “sofferenza a distanza” di “Altri” culturali possono svolgere nel dare forma a risposte nazionali e internazionali a catastrofi lontane. Ritengo che le immagini di sofferenza di propri concittadini inneschino un diverso insieme di relazioni e una diversa partecipazione. La politica umanitaria dei lavoratori presuppone un pubblico giudicante davanti al quale i funzionari del governo si sentano sufficientemente imbarazzati o comunque provocati tanto da rispondere alle richieste dei lavoratori. Da qui la dipendenza dai mezzi di comunicazione di massa per mobilitare quel pubblico giudicante insieme alla necessità di mettere in scena eventi di sofferenza o di confronto che ottengano un certo tipo di attenzione. Per questo motivo la maggior parte dei lavoratori ha descritto e vissuto l’attenzione dei media come una forma di cura (nel doppio senso del prendersi cura dei lavoratori prestando loro cura). Tuttavia, la creazione e la diffusione pubblica di immagini di sofferenza dei lavoratori è rischiosa poiché crea differenti registri di interpretazione. Piuttosto che rifarsi al quadro interpretativo proposto dai lavoratori – di una loro sofferenza come ingiustizia inaccettabile che deve essere rettificata – è possibile che gli osservatori vedano i lavoratori in difficoltà solo come un’altra categoria sociale di soggetti bisognosi, insieme alle vedove di guerra, ai veterani feriti, alle madri single, etc. Un leader degli scioperi si è lamentato di quanto spesso la lotta dei lavoratori è stata pubblicamente riconosciuta come una mera richiesta di denaro allo stato, piuttosto che come un diritto al lavoro e alla retribuzione.
Tutto ciò conduce al secondo aspetto, che parte dal riconoscere come queste tattiche dei lavoratori di solito non riescano a smuovere il governo verso le direzioni desiderate, ovvero ricevere i salari e i contributi non pagati e riavviare la produzione. Tuttavia, come evidenziato dagli esempi precedenti, i lavoratori in difficoltà possono attivare il sostegno dei concittadini, spesso in modi inaspettati e imprevedibili. Ciò ha dato vita a relazioni e collaborazioni improvvisate e sfuggevoli, a volte brevi, come consegnare un pezzo di pane a un lavoratore, marciare uniti contro la polizia o filmare un annuncio da diffondere attraverso i social media. Per quanto fugaci, queste relazioni e collaborazioni possono produrre nuove forme di valori ed eventi pubblici che rinnovano l’importanza politica dei lavoratori sostenendo la loro lotta e aiutandoli a raggiungere vittorie concrete, sia grandi che piccole.
Molti di noi credono, in base a un senso comune condiviso, che le forze strutturali che modellano le nostre vite, come il capitalismo o il nazionalismo, siano difficili da turbare o sovvertire tanto che sembra sconsiderato persino tentare. Documentare relazioni improvvisate e vittorie inaspettate, in particolare quelle transitorie, fugaci e sperimentali, può allontanarci da questa convinzione e dal suo connesso pessimismo politico. Tali “esperimenti” possono ravvivare la nostra immaginazione politica permettendoci di ripensare a ciò che conta veramente, a ciò che è possibile e a come le cose possano andare diversamente.
(Tradotto da Donata Balzarotti)
Bibliografia
Boltanski, Luc. 1999. Distant Suffering. Morality, Media, and Politics. NY: Cambridge University Press.
Fassin, Didier. 2012. Humanitarian Reason. A Moral History of the Present. Berkeley, CA: University of California Press.
Malkki, Liisa H. 1996. “Speechless Emissaries. Refugees, Humanitarianism, Dehistoricization.” Cultural Anthropology. 11(3): 377-404.